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Mario Sironi, Carlo Carrà, Gino Severini, Massimo Campigli, Arturo Martini, Antonio Maraini (il nonno di Dacia): ci sono tutti negli androni immensi e nelle aule del Palazzo di Giustizia.
Il giornalista dell’epoca Ugo Ojetti ricorda che «l’interno è decorato con pitture e sculture di 52 artisti nostrani, scelti tra i più celebrati o almeno tra i più nominati di questo tempo». Aggiunge però che «né tutti questi dipinti, mosaici, rilievi, sono stati, come era da aspettarsi, accolti dallo stesso consenso; tanto che alcune di queste opere non sono state ancora scoperte al pubblico» («Corriere della Sera», 6 giugno 1942).
L’appunto finale è allusione alla censura che colpì alcuni lavori, accusati d’indecenza, ‘ebraismo’ o sconvenienza ideologica. Il colossale edificio, rivestito di “marmo eterno”, è opere dell’architetto romano Marcello Piacentini, il quale sosteneva che un «Palazzo di Giustizia deve ricordare, nelle sue linee, la solennità e la maestosità della Giustizia, e anche il suo carattere fatale, quasi sovrumano».
Ma la «marmorea mole» è soprattutto l’edificio dei grandi numeri: «5 km di corridoi, 1.123 locali, 28 scale, 4 maggiori e 24 minori, 80 km di tubazioni, 220 telefoni, 1.200 interruttori elettrici, 1.200 globi di luce, più centinaia e centinaia di lampade».
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